ELISA P stai tranquilla che l'analisi l'ho fatta tt da me e nn sn una k nn studia e k nn ha voglia, anzi vado molto bn a italiano. ho provato ad andare su internet xk nn ho capito bn il mex dll poesia, ma nn ho trovato nnt d semplice. so k è 1 bella poesia ank s tnt dicono k leopardi è trp pessimista e x qst è brutto. s nn sai cm sn nn t basare sulla domanda. grazie!
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ANALISI DELL’OPERA
Il verso usato è l’endecasillabo e il numero di versi (15) supera solo di uno quello della forma classica. Si tratta di una lirica breve e le parole sono ordinate all’interno del verso in una struttura metrica molto originale. L’intera poesia, è ricca di enjambements che hanno la funzione di allungare il ritmo del verso. Al momento della stesura dell’opera Leopardi aveva poco più di 20 anni e cominciava a teorizzare il valore poetico delle cose vaghe e dei contorni poco definiti, avvolte nell’alone del ricordo e del sogno. Nel “l’infinito” il poeta immagina di essere seduto dinanzi a una siepe che gli impedisce di vedere l’orizzonte; ciò gli permette di vedere con la fantasia spazi illimitati finché viene richiamato al presente dallo stormire delle fronde. Questo suono gli fornisce ancora una volta il pretesto per allontanarsi con l’immaginazione non più nello spazio, ma nel tempo, nel passato per evocare le epoche che si succedono e spariscono. Il suo fantasticare gli provoca una sensazione di gran dolcezza.
In questi versi è indicato un percorso, dal finito all’infinito, in cui la frattura tra l’esistenza e il nulla sembra colmarsi, nell’intreccio continuo fra sensi e pensiero, nell’azione di un pensiero che non si stacca mai completamente dai sensi. Il percorso parte dal finito limitante della siepe, si spinge con lo sguardo (mirando), cioè con i sensi, oltre questo primo limite negli “interminati spazi” di un orizzonte vastissimo, dove questa volta con il pensiero crea egli stesso (mi fingo) l’infinito del silenzio sovrumano e della profondissima quiete, dal quale il poeta è respinto in se stesso. Di fronte all’infinito non può non emergere la paura: l’abisso che separa il finito (la voce del vento, che rimette in moto i sensi e spinge la ragione ad evocare le morte stagioni) e l’infinito è immenso, ma è tutto interno all’uomo, è il frutto della forza creatrice del suo pensiero, in cui il pensiero stesso “annega”, si perde, “naufraga”. Il naufragio è dolce. L’infinito è l’illusione: il poeta prende il nulla al di la dell’ultimo orizzonte e lo porta dentro di sé, lo trasforma nel suo infinito, ne fa una sua creatura; e allora il nulla cessa di essere tale, e il cuore non si “spaura” più, ma anzi prova piacere (naufragar m’è dolce). L’illusione non è vaneggiamento, ma è la vittoria dell’uomo sulla natura. Egli è capace di pensare ciò che la natura non è capace di essere: una natura che si fonda sul nulla, è nulla essa stessa; il pensiero trasforma il nulla in essere.
L’autore mantiene sempre il controllo della ragione. Il fatto che i verbi siano tutti al presente suggerisce una ripetizione abituale di queste azioni, egli è cosciente del suo fantasticare. La lirica è formata da quattro periodi, il primo e l’ultimo hanno un ritmo piano e discorsivo, mentre quelli centrali hanno un ritmo mosso e la loro sintassi è più complessa.
Leopardi vuole superare il limiti dell’esperienza umana e per far ciò, accosta dei contesti naturali, rappresentati dalla siepe e dei contesti mentali, dello stormire del vento per potersi proiettare negli spazi indeterminati, nell’infinito silenzio e nella dimensione dell’eterno; dimensioni nelle quali la fantasia trova dolce il naufragio. Per quanto concerne il paesaggio esso è ridotto all’essenzialità assoluta: il “colle” e la “siepe” che limita la visuale e l’ultimo orizzonte che funziona da stimolo per l’immaginazione.
Il poeta crea nel suo pensiero per via negativa, semplicemente opponendo allo spazio chiuso una vastità, illimitata, ai suoni e ai moti della vita, un silenzio e una quiete ignote.
Leopardi concepisce l’infinito come indefinito e progressivamente nel pensiero e nella poesia il desiderio dell’infinito è diventato desiderio del non essere, della morte
xdd47 tu ! pazzo a pensare che la ragazza che ti ha fatto la doanda legga quello che hai scritto !
se non mi sentissi terribilmente in colpa nei tuoi confronti ti farei un'analisi della poesia con tutto il cuore, ma preferisco che sia tu a documentarti e informarti, perchè solo così potrai imparare....
è una poesia bellissima!non rimarrai delusa se l'approfondirai!
il poeta cn qll siepe di "mezzo" immagina l'infinito...
dell’intero pensiero leopardiano. Esempio emblematico ci è offerto da “La ginestra”, ultimo grande canto che conclude il percorso poetico di Leopardi; attraverso l’immagine di una ginestra cresciuta sulle ostili pendici del Vesuvio, il poeta dà vita ad una lunga riflessione spirituale, morale e filosofica sulla vita, rimarcando ancora una volta l’infinita piccolezza dell’uomo di fronte ai meccanismi perversi della natura: l’umanità cresce, crea e costruisce… e in un istante troppo breve da concepire la natura si ribella, spazzando via tutto (con un tornado, un terremoto o, come nel caso del componimento, un’eruzione con colata lavica), vaneggiando il lavoro umano, come una mela matura, cadendo dall’albero, in un solo istante schiaccia, distrugge e sommerge i nidi scavati dalle formiche con grande fatica. L’uomo è allo stesso livello di un insetto, in balia delle catastrofi naturali.
Ricordando l’importanza e la permanenza del materialismo nel pensiero leopardiano, viene però spontaneo chiedersi come sia dunque possibile conciliare questo “pessimismo cosmico” (che vede nell’uomo un’innata, eterna condizione di infelicità ) con la possibilità della coscienza umana di raggiungere i più alti livelli dell’intelletto per ricongiungersi con l’Assoluto. Come si è già detto prima, per Leopardi la dimensione delle cose reali e quella dell’infinito sono coesistenti e irriducibili, seppur inconciliabili; ed è solo portando il materialismo alle estreme conseguenze che se ne riconoscono i limiti: volendo far coincidere il concetto dell’Assoluto con la figura di Dio, una volta affermato che l’anima non esiste, perché allora l’uomo è stato dotato di un intelletto tale da porsi questo genere di domande?
La poesia dell’ultimo Leopardi è fortemente interrogativa, materialistica e antimaterialistica allo stesso tempo… L’uomo continuerà a guardare il cielo stellato e a porsi domande di senso (“…e quando miro in cielo arder le stelle,/ dico fra me pensando:/ a che tante favelle?/ Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren?” Canto notturno, 1829-1830), ma ad esse non potrà mai trovare risposta, né dall’intimo di se stesso, né dalla natura (“…dimmi quello che nessun filosofo sa dire: a chi piace o giova cotesta vita in felicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”, Dialogo della natura e di un islandese, maggio 1824).
Ma forse è giusto che sia così, che l’uomo rimanga con i suoi interrogativi, i suoi dubbi sull’esistenza, l’incapacità di comprendere il nostro ruolo su questa terra…E’ la tensione all’infinito, e non il suo raggiungimento, il vero successo…
Tra reale e infinito, il lungo travaglio del pensiero leopardiano
L’uomo, fin dagli albori della sua esistenza, ha sempre cercato di dare una risposta ai grandi interrogativi della vita, di capire chi o cosa governi il mondo, perché gli uomini sembrino far parte di una specie animale destinata all’eterna sofferenza… Eppure negli ultimi due secoli della nostra storia, fino a oggi, sembra essere sparita non solo la necessità , ma anche la spontaneità di domandarsi quale sia il vero ruolo dell’uomo, sulla Terra come nell’universo intero… molte sono state le voci che si sono alzate per manifestare il loro rifiuto verso questa nuova mentalità , appartenente ad una società che, a partire dalla rivoluzione industriale (che a diverse fasi ha attraversato i vari paesi dell’Europa), ha favorito la nascita e lo sviluppo della classe imprenditoriale borghese, di una mentalità comune oramai trascinata dal suo proprio egoismo, della sete di potere e di progresso, lasciando artisti, letterati e tutti coloro che si dedicavano al nutrimento dello spirito privi di importanza, in un mondo dove sono solo le tasche e lo stomaco a dover essere nutriti, una società che, nell’ultimo lasso di tempo della sua esistenza, ha dimostrato di aver perso quello spirito sensibile, e forse anche un po’ beatamente ingenuo, che un tempo permetteva di intuire qualcosa di più alto, così divino e meraviglioso, al di sopra delle nostre singole coscienze, che lasciava negli uomini una piccola ma piacevole inquietudine, unita ad un senso di partecipazione con l’Assoluto, un mistero da voler svelare ma così bello nel sentirlo irrisolto.
Una di queste voci uscite fuori dal coro, nel corso dell’Ottocento, è stata proprio quella di Giacomo Leopardi che, seppure attraverso diverse correnti di pensiero che hanno influenzato la sua vita, ha sempre cercato di non perdere quella sensibilità che oramai, in una società come quella progressista, sembrava destinata a scomparire per sempre. Per quanto si sappia che esistono le eccezioni che confermano le regole, è opportuno cercare di comprendere quali siano stati le esperienze e i meccanismi che hanno permesso a questo straordinario autore di continuare a sperare nella mediazione tra uomo e infinito attraverso le più nobili arti alle quali l’umanità è stata capace di dar vita.
• L’infinito e la teoria del piacere
Pur avendo ricevuto un’istruzione accademica e classicistica, come era usanza nelle famiglie nobili del tempo, il giovane Leopardi, alla sola età di diciotto anni, cominciò già a sviluppare una sua personalità in ambito letterario e culturale, dedicandosi alle opere di antichi poeti come di autori a lui contemporanei. Ma il senso di frustrazione che già covava dentro di lui nell’oppressione dell’ambiente familiare recanatese fin dalla sua infanzia era nel frattempo cresciuto, a causa di una grave malattia agli occhi, nel 1819, che per un po’ di tempo gli impedì di dedicarsi al sua unica fonte di conforto, la lettura; è paradossale come l’infermità agli occhi, complice in questo isolamento interiore, in parte voluto quanto obbligato, abbia invece “aperto gli occhi” al giovane poeta che, per la prima volta, cominciò a percepire la vita come un senso di vanità di tutte le cose materiali. Nasce così la <<teoria del piacere>>, secondo cui l’uomo non tende solo al piacere particolare, che è temporaneo e individuale, ma ad una sfrenata ricerca del piacere continuo (e dunque, seppur materiale, infinito) che sarebbe alla base dell’infelicità degli uomini e dunque anche alla base della nullità di tutte le cose. La cosiddetta crisi del 1819, come la teoria del piacere, è dunque una tappa decisiva per poter ripercorrere il pensiero di Leopardi, che in questi anni della sua gioventù acquisì una sempre maggiore consapevolezza dell’importanza della filosofia, del pensiero, del concetto astratto come sperimentazione e interpretazione. Un primo approccio di questo tipo ci è offerto da “L’infinito”, un idillio di quegli stessi anni che, attraverso l’ottica della teoria della visione, offre uno spunto di riflessione per affrontare un tema vasto e complesso come quello dell’infinito, a cui l’uomo può cercare di tendere se non attraverso i mezzi fisici di cui è stato dotato. E’ la percezione sensibile il punto di partenza di tutto: come egli stesso afferma nello Zibaldone (un diario intellettuale in cui per anni furono annotate diverse riflessioni filosofiche, artistiche e letterarie dell’autore) e come si conferma ulteriormente ne “L’infinito”, sono proprio le cose che ostacolano la vista a stimolare l’immaginazione (“L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario…” Zibaldone, luglio 1820). Con la sua teoria della visione (a cui seguirà immediatamente anche quella del suono), Leopardi afferma che questo immaginare ciò che non si riesce a vedere suscita un insieme di emozioni differenti, indefinibili, e permette così un contatto con sensazioni superiori di cui può così godere l’uomo (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. […] …e mi sovvien l’eterno, […] Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio/ e il naufragar m’è dolce in questo mare” L’Infinito, 1819). Come risulta evidente, il sensismo di cui si fa portavoce Leopardi è strettamente connesso con la teoria del piacere; ci dice infatti l’autore che “la vastità e la molteplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. […] ...la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondire nessuno, e quindi rassomiglia in un certo modo a un piacere infinito” (dallo Zibaldone, luglio 1820).
Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, attraverso l’immaginazione l’uomo moderno può almeno figurarsi infiniti piaceri ed è così reso simile ai fanciulli e agli antichi, ai quali la vicinanza con la natura (benigna, almeno nella prima fase del pensiero leopardiano) ha fatto il dono dell’illusione, grazie alla quale è concessa loro l’inconsapevolezza della loro innata natura infelice.
• L’infinito nel limite, il materialismo che nega se stesso
Se da un lato Leopardi afferma le sue teorie in una chiave fortemente sensistica e materialistica, va anche detto però che è proprio dal materialismo che, in un’espressione apparentemente contraddittoria, possiamo trovare i presupposti per una confutazione del materialismo stesso. La Terra, dopo le scoperte astronomiche del XVI secolo, non è più al centro dell’universo, tanto meno l’uomo; egli è una piccolissima parte del tutto, come il più grande degli animali o il più piccolo degli insetti, ha le capacità di progredire ma è allo stesso tempo ostacolato dai sue mille e più limiti, fisici e morali… Qual è, allora, il ruolo dell’uomo nell’universo? Come può egli, animale dalla coscienza e un intelletto superiori essere paragonato a un mero elemento del paesaggio terrestre o piccolo ingranaggio del meccanismo di sopravvivenza di una natura che oramai Leopardi giudica egoista e priva di qualsiasi fine volto alla felicità dell’uomo?
E’ a partire dal 1823 che Leopardi comincia a sviluppare questa nuova visione della vita: il modo di percepire l’infinito, l’Assoluto (o il Divino, o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare) non coincide più con il piacere (come l’infelicità non è più l’assenza di piacere), ma con il rendersi conto dell’essere umano della sua piccolezza di fronte all’universo; infatti “…niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto,… che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quand’egli […] si sente infinitesima parte d’un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, […] si confonde col nulla, […] e si trova smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; e allora con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile dell’immensa capacità della sua mente, la quale […] è potuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui…” (Zibaldone, agosto 1823).
Spostando poi la causa dell’infelicità umana dall’uomo stesso alla natura, il poeta recanatese ci dice come l’uomo, alla fine, non sia altro che una vittima dell’indifferenza della natura, filosoficamente vista come un meccanismo che agisce in funzione della sua propria conservazione e in cui l’uomo non è compreso; poco importa se, al fine della sua sopravvivenza, la natura debba creare e distruggere; nulla cambia il suo ciclo, nemmeno l’idea che la specie umana possa perire sotto il giogo malefico di una natura alla quale, in una delle sue operette morali, “Dialogo della natura e di un islandese”, Leopardi dà piena personificazione, dandole voce in capitolo per dimostrare come “la vita di un universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione” (Dialogo della natura e di un islandese, maggio 1824).
Dunque la visione leopardiana rimane sempre e comunque materialistica, senza entrare in contraddizione con il concetto di infinito. E sarà proprio questo dualismo a portare alle estreme conseguenze il pensiero dell’ultimo Leopardi.
• La fase conclusiva
Una volta tratte le conclusioni e le cause dell’infelicità umana attribuite alla natura, Leopardi, nei suoi ultimi anni, diede vita ad una serie di componimenti che, oltre a essere fra i più sublimi, possono essere considerati come un compendio dell’