Nel 1990, dopo cinque anni di studi sul XVIII secolo in Sicilia e sulla figura della protagonista, Dacia Maraini scrive “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, uno dei suoi romanzi più amati dalla critica: vince i premi “Supercampiello”, “Miglior libro dell’anno”, “Quadrivio”, “Apollo”, “Reggio Calabria”.
Tre anni più tardi, in “Bagheria”, l’Autrice - indirettamente - spiega la genesi di questo suo precedente romanzo, che affonda le sue radici nella storia familiare della stessa Maraini.
La madre dell’Autrice, infatti, siciliana, discendeva dall’antica famiglia degli Alliata di Salaparuta. E’ per questo motivo che, alla fine della seconda Guerra mondiale, di ritorno da un campo di concentramento giapponese, la famiglia Maraini, con la piccola Dacia, andò ad abitare in Sicilia, nella Villa Valguarnera di Bagheria.
Ed è durante un ritorno – da adulta - nei luoghi dell’infanzia, raccontato, appunto, in “Bagheria”, che l’Autrice viene attratta da un dipinto raffigurante una sua giovane antenata, ritratta con tutto il suo “armamentario” per scrivere. Inizialmente riesce a sapere solo che la donna era sordomuta e che era stata data in sposa, giovanissima, a uno zio. Da qui inizia il lungo lavoro di ricerca di documenti dell’epoca che ha reso possibile la stesura del romanzo.
Proprio per questo motivo, “La lunga vita di Marianna Ucrìa” si presenta come un grande e realistico affresco della Sicilia del Settecento, divisa tra il permanere dell’oscurantismo dell’Inquisizione e le nuove idee che si stanno diffondendo in Europa nel “secolo dei Lumi”.
E proprio la “mutola” Marianna si pone come anello di congiunzione tra questi due mondi così contraddittori: se da un lato viene costretta dalla sua famiglia ad adeguarsi alle crudeli consuetudini del tempo e della società cui appartiene (deve assistere alle impiccagioni di piazza, deve sposare - appena tredicenne - lo zio anziano e scapolo, visto che la sua mutilazione non consente di ambire a un matrimonio “migliore”), dall’altro, proprio grazie alla sua sordità che la separa da quel mondo, riesce a introdurre nella propria vita privata i principi “illuminati” che assorbe dalla lettura di Hume e dei “philosophes” francesi.
Così, seppure costretta inizialmente a subire la violenza del “signor marito zio”-padrone, Marianna riesce a portare avanti il suo cammino di emancipazione fino a riacquistare la propria indipendenza da lui, dai familiari e dalla Sicilia intera, dalla quale, infine, si allontana alla ricerca di luoghi e persone nuove. In ciò, paradossalmente, sia ostacolata che agevolata dal proprio handicap, occasione e motivo della forte spinta alla lettura che la domina e la fa maturare.
Ancora una volta la Maraini affronta il tema dell’emancipazione della donna da secoli di storia in cui è stata costretta a subire il mondo maschile, con tutta la sua violenza. Ancora una volta, una donna viene raccontata da una donna. Per di più si tratta di una donna muta, che diventa simbolo del silenzio a cui tutte le donne, nella storia, sono state costrette.
Questi sono i motivi che mi hanno fatto apprezzare questo romanzo, sicuramente non facile.
Non ho gradito, invece, in tanto realismo, la non realisticità delle capacità della protagonista: a cominciare dall’eccessiva facilità con cui riesce a comunicare con gli altri grazie alla scrittura, per arrivare – al culmine - alla sua capacità di “leggere nel pensiero”, fin troppo facile espediente con cui l’Autrice rivela il pensiero delle persone che stanno intorno a Marianna e grazie al quale, alla fine, è svelato il grande colpo di scena del romanzo.
Answers & Comments
Verified answer
Nel 1990, dopo cinque anni di studi sul XVIII secolo in Sicilia e sulla figura della protagonista, Dacia Maraini scrive “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, uno dei suoi romanzi più amati dalla critica: vince i premi “Supercampiello”, “Miglior libro dell’anno”, “Quadrivio”, “Apollo”, “Reggio Calabria”.
Tre anni più tardi, in “Bagheria”, l’Autrice - indirettamente - spiega la genesi di questo suo precedente romanzo, che affonda le sue radici nella storia familiare della stessa Maraini.
La madre dell’Autrice, infatti, siciliana, discendeva dall’antica famiglia degli Alliata di Salaparuta. E’ per questo motivo che, alla fine della seconda Guerra mondiale, di ritorno da un campo di concentramento giapponese, la famiglia Maraini, con la piccola Dacia, andò ad abitare in Sicilia, nella Villa Valguarnera di Bagheria.
Ed è durante un ritorno – da adulta - nei luoghi dell’infanzia, raccontato, appunto, in “Bagheria”, che l’Autrice viene attratta da un dipinto raffigurante una sua giovane antenata, ritratta con tutto il suo “armamentario” per scrivere. Inizialmente riesce a sapere solo che la donna era sordomuta e che era stata data in sposa, giovanissima, a uno zio. Da qui inizia il lungo lavoro di ricerca di documenti dell’epoca che ha reso possibile la stesura del romanzo.
Proprio per questo motivo, “La lunga vita di Marianna Ucrìa” si presenta come un grande e realistico affresco della Sicilia del Settecento, divisa tra il permanere dell’oscurantismo dell’Inquisizione e le nuove idee che si stanno diffondendo in Europa nel “secolo dei Lumi”.
E proprio la “mutola” Marianna si pone come anello di congiunzione tra questi due mondi così contraddittori: se da un lato viene costretta dalla sua famiglia ad adeguarsi alle crudeli consuetudini del tempo e della società cui appartiene (deve assistere alle impiccagioni di piazza, deve sposare - appena tredicenne - lo zio anziano e scapolo, visto che la sua mutilazione non consente di ambire a un matrimonio “migliore”), dall’altro, proprio grazie alla sua sordità che la separa da quel mondo, riesce a introdurre nella propria vita privata i principi “illuminati” che assorbe dalla lettura di Hume e dei “philosophes” francesi.
Così, seppure costretta inizialmente a subire la violenza del “signor marito zio”-padrone, Marianna riesce a portare avanti il suo cammino di emancipazione fino a riacquistare la propria indipendenza da lui, dai familiari e dalla Sicilia intera, dalla quale, infine, si allontana alla ricerca di luoghi e persone nuove. In ciò, paradossalmente, sia ostacolata che agevolata dal proprio handicap, occasione e motivo della forte spinta alla lettura che la domina e la fa maturare.
Ancora una volta la Maraini affronta il tema dell’emancipazione della donna da secoli di storia in cui è stata costretta a subire il mondo maschile, con tutta la sua violenza. Ancora una volta, una donna viene raccontata da una donna. Per di più si tratta di una donna muta, che diventa simbolo del silenzio a cui tutte le donne, nella storia, sono state costrette.
Questi sono i motivi che mi hanno fatto apprezzare questo romanzo, sicuramente non facile.
Non ho gradito, invece, in tanto realismo, la non realisticità delle capacità della protagonista: a cominciare dall’eccessiva facilità con cui riesce a comunicare con gli altri grazie alla scrittura, per arrivare – al culmine - alla sua capacità di “leggere nel pensiero”, fin troppo facile espediente con cui l’Autrice rivela il pensiero delle persone che stanno intorno a Marianna e grazie al quale, alla fine, è svelato il grande colpo di scena del romanzo.
lei alla fine muore
alla fine muore.
è stato lo stalliere.